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Fake meat o carne coltivata?

Alessandro Fioretti e Nicoletta Murru

Dal 2013 è iniziata la produzione sperimentale di carne sintetica con costi proibitivi, basti pensare che il primo hamburger sintetico venne a costare circa 300.000 $ e due anni di lavoro. Questo dispendioso piatto venne servito però da un cameriere d’eccezione, Mark Post della Università di Maastricht. Questo ricercatore si è dedicato allo studio della produzione di carne artificiale in vitro grazie a cospicui finanziamenti privati. Oggi i magnati del digitale investono nel campo della carne/non carne, altrimenti definita “coltivata” creata a partire da cellule staminali animali o quella con proteine vegetali. Recente è la curated meat, detta “carne in vitro” o “pulita”, paragonata a quella ottenuta da allevamenti.

Questa viene prodotta a partire da singole cellule prelevate dall’animale e poste in bioreattori nei quali, in un brodo di nutrienti, crescono e replicano. Un ristorante di Singapore, unico paese al mondo ad aver autorizzato la commercializzazione della carne coltivata, serviva, nel 2019, bocconcini di pollo vegetali per la modica cifra di diciassette dollari. Secondo il fondatore della Eat Just, la carne artificiale dilagherà sia nei ristoranti stellati sia dai kebabbari, ma prevedere i tempi di commercializzazione è complesso, poichè non dipendono solo dalle autorizzazioni governative, ma soprattutto dal cambiamento culturale dei consumatori. La concorrenza con il mercato della carne “normale” potrà avvenire solo se i prezzi di quella coltivata crolleranno, alcuni studi ipotizzano che alla fine del decennio si potrà acquistare quest’ultima a 5 dollari al kg e la concorrenza diverrà reale.

Può sembrare strano, ma la carne finta parte avvantaggiata dal punto di vista ambientale, perché viene oggi affermato che il 14,5% delle emissioni globali, secondo quanto stabilito dalla FAO, deriva dalla zootecnia intensiva. In caso di carne vegetale si otterrebbe un risparmio in termini di emissioni pari al 90%, mentre sarebbe minore, ma considerevole, quello ottenuto con la carne sintetica. Per questo motivo il Good Food Institute (organismo indipendente) ha censito un centinaio di start up interessate a popolare la nicchia della carne ecocompatibile, i principali centri di innovazione restano la Silicon Valley, Israele e Olanda. La Cina ha di recente incluso la carne vegetale e quella in vitro nelle linee guida per la sicurezza alimentare, e tenendo presente che questo paese ha triplicato i consumi di carne dal 1980 ad oggi, le prospettive commerciali divengono enormemente interessanti, considerando anche la patina ecologica che il paese si darebbe.

Ci sono però dei fieri avversari di queste proteine alternative, che non a caso definiscono tali alimenti come “ultra-processati”. In particolare, l’impiego di questi cibi spezzerebbe ogni legame con la natura e con la terra, come sostiene in un recente libro Gilles Luneau, giornalista e saggista, che in sintonia con un ambientalismo apocalittico, disegna un quadro molto allarmante di questa svolta alternativa tesa unicamente, secondo la sua opinione, a favorire i notevoli interessi economici in gioco. La tesi filosofica del saggista francese è quella secondo cui che l’eccessivo uso della tecnologia porterà all’espulsione dell’uomo dal proprio ecosistema, nella convinzione che dipendere sotto il profilo alimentare dal laboratorio anzichè dal campo significa perdere la sovranità e la sicurezza alimentare.

Il modello sostenibile di allevamento e di agricoltura deve essere una risposta collettiva e sociale di fronte alle sfide ambientali e cioè mangiare bene rispettando i prodotti di stagione e di luogo. La tecnologia deve però dialogare con la biodiversità e la tradizione così da conservare l’equilibrio uomo-natura.

Il futuro sarebbe quindi del coltivato in vitro? Chi vivrà vedrà…