di Antonio Ramaglia
Laureato in Scienze naturali, Capoufficio Area Tecnica Dipartimento di Fisica UNINA
Diplomato Master DISCI
Il cibo sulle nostre tavole cambia continuamente, e questo cambiamento è così profondo che, pur mantenendo intatte le forme e l’aspetto, la composizione e il contenuto sembrano distaccarsi fortemente dal concetto stesso di cibo.
Il cibo che ogni giorno assumiamo assolve biologicamente molteplici funzioni: fornire energia, rinnovare i tessuti corporei, apportare acqua ed elementi minerali. Durante la nutrizione avvengono reazioni complesse che attivano ormoni e garantiscono la crescita e il mantenimento della nostra salute. In condizioni normali, il corpo umano regola il bilancio energetico così finemente da mantenere il peso in uno stato stazionario. Basti pensare che un surplus di sole 50 kcal al giorno – equivalenti a mezzo uovo sodo o 5-6 mandorle – può portare a un incremento di oltre 2 kg in un anno.
Ma la natura è stata generosa, dotandoci di neurotrasmettitori che ci permettono di vivere una vera e propria esperienza sensoriale durante il pasto.
Cosa sta accadendo allora? Analizzando i parametri fisici della popolazione, emerge che qualcosa ha minato la capacità omeostatica dell'organismo, la capacità di regolare l’equilibrio metabolico, almeno dal dopoguerra a oggi. Le foto degli anni '70 mostrano una popolazione mediamente normopeso o magra, mentre oggi assistiamo a un'epidemia di sovrappeso e obesità (1). Le cronache millenarie dell’umanità riportano difficoltà legate alla carenza di cibo e all’igiene, ma non parlano di disfunzioni metaboliche di massa come quelle a cui assistiamo oggi. L'incremento annuale delle malattie metaboliche e allergiche non ha precedenti nella storia. Dal dopoguerra in poi, nella dieta di massa sono stati introdotti zuccheri, oli raffinati da semi, grassi idrogenati, farine raffinate e una miriade di additivi, con una corsa incessante alla trasformazione dei cibi in prodotti ultra-processati capaci di durare a lungo sugli scaffali dei supermercati (2). Questi prodotti oggi dominano il mercato alimentare e sono accompagnati da un marketing aggressivo ed economico. Riconoscerli non è sempre facile: leggere l'etichetta attentamente è fondamentale. Se un prodotto contiene additivi, zuccheri aggiunti e ha subito la rimozione delle fibre, è altamente probabile che sia un alimento ultra-processato. Lo zucchero, in particolare, con la sua capacità di attivare sistemi di ricompensa a livello neurologico, può essere nascosto sotto più di cinquanta nomi diversi, frammentando la sua presenza nell'elenco ingredienti per non comparire tra i primi posti (es. succo di canna evaporato, succo di frutta concentrato, succo d’uva concentrato e succo di mela concentrato sono di fatto sinonimi) (3).
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale siamo passati da un consumo nullo a coprire percentuali altissime del nostro conto calorico giornaliero.
Un esempio estremo è la pizza, tra i cibi più amati che nel tempo è passata da prodotto a consumo fresco a prodotto industriale surgelato ed infine a prodotto da includere nelle razioni da combattimento dell’Esercito USA, una specie di “Pizza d’Assalto". (4) Quest’ultima, è stata sviluppata dai laboratori dell'esercito americano, progettata per conservarsi fino a tre anni a temperatura ambiente mantenendo le sue proprietà organolettiche. Il prodotto nasce per rispondere a esigenze militari di emergenza, con quasi zero fibre, fornendo calorie e una palatabilità che aiuta a sostenere lo stress mentale del combattente, ma evidenzia una tendenza più ampia: l'industria alimentare moderna crea cibi progettati per essere estremamente appetibili, ma che possono portare a forme più o meno lievi di dipendenza e consumo eccessivo. Gli ingredienti usati includono zuccheri, aromi, esaltatori del gusto e coloranti; i trattamenti termici e meccanici che sfruttano le proprietà molecolari degli amidi finiscono per minare i meccanismi naturali di sazietà del nostro organismo.
Negli ultimi decenni, lo stile di vita cosiddetto moderno, ha incentivato il consumo di cibi pronti e precotti, ricchi di conservanti ed emulsionanti. Questi prodotti, pur essendo pratici, presentano carenze nutrizionali importanti. Mancano fibre, il rapporto tra Omega-3 e Omega-6 è sbilanciato, e sono spesso poveri di triptofano, essenziale per la produzione di serotonina. Inoltre, vengono realizzati con materie prime raffinate e impoverite di micronutrienti, ma offrono un sapore irresistibile e valori nutrizionali mediocri, se si eccettua il calcolo delle calorie.
Oggi solo dieci multinazionali controllano il 90% della produzione industriale di cibo: una versione moderna del latifondo. Un potere enorme che comporta virtù e rischi tali da richiedere un’analisi interdisciplinare puntuale.
È vero che le multinazionali del cibo impongono i loro prodotti, ma è altrettanto vero che assicurano una capillare rete di distribuzione di generi alimentari a basso costo. Ma le multinazionali del cibo potrebbero trovarsi a fronteggiare un declino dovuto alle loro stesse dimensioni. Inoltre, nel mondo esistono i cosiddetti deserti alimentari, aree nelle quali non si ha accesso a cibi basilari, ma solo cibi industriali. Nel frattempo, noi consumatori dovremmo guardare al cibo in modo diverso e riguadagnare un posto ai fornelli per controllare cosa mettiamo nel piatto. Questo ritorno alla consapevolezza non va inteso come un astratto atto di ribellione, quanto piuttosto un percorso culturale per riorientare anche l’industria a pratiche più sane.
C’è speranza, con un po' di consapevolezza in più, di riuscire anche a salvare il Soldato Ryan, non solo dalla guerra, ma anche dalla trappola del cibo ultra-processato.
Museum of Pizza, MoPi (Brooklyn, New York)
Fonti
1) https://ourworldindata.org/grapher/share-of-adults-defined-as-obese?time=2016
2) Johns Hopkins University – Ultra-processed Foods
3) https://ilbolive.unipd.it/it/news/scienza-ricerca/limpatto-ambientale-sulla-salute-zucchero